La fine di un’epoca, morto Silvio Berlusconi

La notizia è dell’ultima ora ed è di quelle che non avremmo mai voluto raccontarvi. Silvio Berlusconi è morto stamattina alle 9.30 nell’ospedale San Raffaele di Milano. Tra l’altro erano arrivati di corsa sia il fratello Paolo Berlusconi che i figli Marina, Eleonora, Barbara e Pier Silvio. I valori di Berlusconi, ricoverato da venerdì scorso per accertamenti legati alla leucemia mielomonocitica cronica non accennavano a migliorare, poi la situazione è precipitata.

Nel bene e nel male, è un pezzo di storia dell’Italia che se ne va. Berlusconi se ne va a 86 anni dopo una vita da protagonista, sia in politica che sulla scena imprenditoriale del nostro Paese. Nell’ultimo cinquantennio non c’è stato un giorno in cui il suo nome non sia stato evocato, in tv, sui giornali, in Parlamento, nei bar, allo stadio; “il Berlusca” ha spaccato l’opinione pubblica come una mela. Impresario edile, tycoon televisivo, presidente del Milan e poi del Monza, fondatore di un partito chiamato Forza Italia, tre volte premier, imputato in processi clamorosi. Tutto in lui è stato eccessivo, figlio di una dismisura. A un certo punto la sua popolarità è stata tale da essere identificato, nel mondo, con l’italiano tout court.

Difficile riassumere la sua incredibile vicenda pubblica e privata. È stato l’uomo più facoltoso del Paese, per cominciare. Una ricchezza gaiamente esibita, scrive Repubblica. Ma non era nato ricco, l’enorme agiatezza se l’era costruita, prima da palazzinaro, poi da visionario catodico, con un impeto talmente spregiudicato da indurre più di una Procura a vederci chiaro. Lo scrittore Giuseppe Fiori che nel 1995 gli dedicò una delle prime biografie la titolò Il venditore. Persuadere, sedurre, piacere agli altri: questo è sempre stata la caratteristica di Silvio Berlusconi, che non riusciva a capacitarsi che invece ci potesse essere una larga fetta di cittadini che trovava diseducative le sue televisioni e sommamente inaccettabile la discesa in campo, perché vi coglieva l’opportunismo di un uomo che sceglie la politica non per vocazione, ma per cinica autodifesa. E’ stato fatto notare che il virus del populismo, che a un certo punto ha contagiato il mondo, si sia propagato proprio dal Cavaliere politico.

È stato il piccolo borghese venuto dal nulla, figura eponima di un lunga stagione. Ciò piaceva all’italiano medio, convinto che li avrebbe resi ricchi come aveva reso immensamente prospere le sue aziende. Si circondò nel tempo di una schiera di fedelissimi, per cui il Cavaliere – come era soprannominato grazie a un titolo ottenuto nel 1977 – era una sorta di divinità immune da ogni critica: “Una schiera di fedeli che offrono soltanto leggende color rosa”, come ebbe a notare Corrado Stajano. Questo popolo cantava ai suoi comizi “meno male che Silvio c’è”; dall’altro si ergevano i suoi avversari, “i comunisti”, l’altra Italia per cui Silvio era il Caimano, e ne denunciava l’egolatria, il conflitto d’interessi, le leggi ad personam, l’esorbitanza nei costumi e scendeva in piazza, faceva campagne di stampa (questo giornale fu in prima fila, spesso in solitudine), organizzava girotondi, film, libri. Erano due mondi inconciliabili.

Le reazioni della politica

Nato nel 1936, figlio del boom, conservatore, fondamentalmente di destra, (“il Paese sta andando sempre più a sinistra” dirà a Mario Pirani sulla Repubblica del 15 luglio 1977 per motivare l’acquisto di una quota del Giornale), proteiforme, stregava per la sua simpatia istintiva e bugiarda. Raccontava le barzellette. Parlava come l’uomo della strada. Mostrava vicinanza alla gente comune, alla casalinga che guardava i suoi programmi mentre rassettava la casa. Gli perdonarono tutto, le gaffe, la bulimia sessuale, l’inconcludenza politica. Nel film di Sabina Guzzanti, Draquila, girato nel pieno dello scandalo delle Olgettine, una donna dell’Aquila dice: “E che male c’è se gli piacciono le donne? È un uomo!”.

È grazie alle televisioni Fininvest, con la fondazione di Canale 5 nel 1980, a cui si aggiunsero Italia Uno e Rete 4, che s’impone. Drive In e Dallas rompono con la pedagogia delle reti Rai. Perfeziona il suo talento con una capacità mostruosa di lavoro. La leggenda narra che la sera, davanti alla tv, guardasse i programmi Fininvest segnalando all’istante i difetti di ciascun programma, dalla scelta degli ospiti, all’inquadratura, alle luci. Ossessivo, pignolo, prima di altri colse i mutamenti profondi che si muovevano nelle viscere della società, sfiancata dagli anni del terrorismo e dalla guerra fredda e bisognosa di nuovi miti, di una leggerezza svagata. Rompe così una convenzione. Un codice basato fino a quel momento sulle due culture, quella cattolica e quella comunista. Milano 2, il quartiere per ricchi, che sin dal 1974 offriva ai suoi abitanti la tv via cavo, TeleMilano, era il frutto di questa intuizione. La tv amplificava così il desiderio di evasione dei nuovi ceti. Drive In, il format domenicale con le ragazze fast food, che sbarca su Italia Uno nel 1983, rappresentò quindi il manifesto di una generazione di giovani, i paninari, che rifiutavano le ideologie e predicavano il disimpegno. “Qui non si fa politica, si fa tv” il piano editoriale. “Corri a casa in tutta fretta che c’è un biscione che ti aspetta” il jingle con cui richiamare le masse.

Le prime reazioni alla morte di Berlusconi sono arrivate da Salvini, che ha detto che “in questa giornata di sole Berlusconi ha deciso di salutarci” e ha chiesto un minuto di silenzio nell’ambito di un evento che stava facendo con la Marina Militare. Giuseppe Conte ha pubblicato un post su Instagram in cui dice che “in questo momento di profondo dolore tengo a far pervenire ai suoi cari e alla sua famiglia il sincero e rispettoso cordoglio mio e del Movimento 5 Stelle”. Si attendono le reazioni di Meloni, Tajani (che è in volo) e degli altri esponenti politici. 

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