In questi giorni, un’ondata di polemiche ha travolto Palazzo Chigi a seguito della notizia dell’aumento degli stipendi per i dirigenti del governo. Dopo tre anni di trattative interrotte, il tavolo delle negoziazioni per il rinnovo del contratto dei dipendenti di Palazzo Chigi è stato finalmente riaperto, suscitando non poche critiche.
Il punto cruciale della discussione riguarda gli aumenti retributivi previsti per il triennio 2019-2021, che vedranno un incremento del 3,78% sugli stipendi. Secondo l’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato, i dirigenti di prima fascia di Palazzo Chigi, in posizione apicale, percepiscono attualmente una retribuzione media annua lorda di 238.881 euro, mentre i dirigenti di seconda fascia ricevono una media di 121.771 euro. Con l’aumento, i primi vedranno il loro stipendio crescere di oltre 9.000 euro lordi annui, equivalenti a circa 900 euro mensili per tredici mensilità. Per i dirigenti di seconda fascia, l’aumento sarà di circa 6.000 euro annui, poco più di 350 euro al mese.
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Questi incrementi sono stati motivati dalla necessità di rendere gli stipendi “capienti” per i futuri aumenti contrattuali, una giustificazione che non ha placato le polemiche. I sindacati hanno richiesto inoltre che venga corrisposta una cifra una tantum come anticipo sugli arretrati, dato che i dirigenti attendono da cinque anni e sette mesi il pagamento di queste somme dovute. Il prossimo incontro tra l’Aran, l’agenzia rappresentante della parte datoriale, e i sindacati è previsto per settembre.
Questo scandalo, che arriva in un momento di crescente insoddisfazione tra i cittadini riguardo alla gestione della spesa pubblica, rischia di danneggiare ulteriormente l’immagine del governo Meloni. Molti si chiedono se, in un periodo di crisi economica, sia davvero opportuno aumentare gli stipendi della classe dirigente mentre il resto del Paese affronta difficoltà finanziarie sempre più pressanti. La vicenda è destinata a tenere banco nelle prossime settimane, con il governo chiamato a giustificare la sua posizione davanti a un’opinione pubblica sempre più scettica.