Il primo maggio è stato un giorno importante per il governo e non solo perché era la festa dei lavoratori. Proprio nella giornata di lunedì infatti l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha fatto, testuali parole, il “più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”. Ma sarà vero? Per gli esperti no.
L’esonero parziale dai contributi previdenziali (che peraltro non sono tasse) a carico dei lavoratori dipendenti vale infatti, stando al comunicato del Tesoro, “circa 4 miliardi“. Anche a voler sommare a quella cifra i poco meno di 5 miliardi complessivi previsti dalla manovra per il 2023 per prorogare e potenziare la sforbiciata introdotta dal governo Draghi si arriva a 9 miliardi: che sono comunque meno dei 10 che furono stanziati da Renzi nel 2014 per il bonus 80 euro!!!
Ma perché Meloni ha rivendicato un record che non esiste? Nel video pubblicato sul sito di Palazzo Chigi la premier ha detto che è stato “liberato un tesoretto da 4 miliardi grazie al coraggio di alcuni provvedimenti” e cita quelli su “Superbonus e accise”. In realtà, come anticipato nel Def il taglio viene finanziato per oltre 3 miliardi sfruttando la differenza tra deficit tendenziale e programmatico che si è aperta grazie alla riclassificazione dei crediti di imposta da ristrutturazione edilizia decisa dall’Istat su indicazione dell’Eurostat.
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In altre parole, le decisioni del governo non c’entrano, se non per il fatto che ha chiesto al Parlamento di poter utilizzare quel teorico spazio fiscale per “sostenere il reddito disponibile e il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti” (andando incontro tra l’altro alla debacle di giovedì scorso alla Camera). In assenza dei testi definitivi non è noto, al momento, da dove arrivino le restanti coperture.
Poi Meloni parla di un taglio che sarebbe senza precedenti negli “ultimi decenni”: “Abbiamo un taglio di 6 punti percentuali per chi ha redditi fino a 35.000 euro e di 7 punti per i redditi fino a 25.000 euro“. Sembra presentare come un unico provvedimento il taglio deciso lunedì e quello già in vigore dal 2022 e confermato con la manovra portandolo dal 2 al 3% per i redditi sotto i 25mila euro. Il dubbio diventa certezza leggendo il comunicato del ministero dell’Economia, stando al quale “l’aumento nella busta paga dei dipendenti viene stimato, nel periodo luglio-dicembre, fino a 100 euro mensili di media“. In realtà l’aumento “nuovo” sarà al massimo di una sessantina di euro, come ha sottolineato nel corso della registrazione di Restart su Rai 2 il segretario della Cgil Maurizio Landini: l’altra parte deriva dallo sgravio già in vigore. Non solo: per arrivare a 60 euro (massimi) il governo ha dovuto rimangiarsi la promessa di far partire il taglio maggiorato da maggio e concentrandolo su un numero di mesi inferiore. In caso contrario secondo Bankitalia il beneficio medio sarebbe ammontato a soli 16 euro al mese.
Tornando al confronto con gli ultimi governi, il governo Conte nel 2020 l’ha potenziato a 100 euro stanziando 3 miliardi per il periodo luglio-dicembre. Nel 2021 Draghi, nell’ambito della riforma dell’Irpef, ha deciso di abolire il bonus e utilizzare gli 8 miliardi a disposizione per la riduzione delle tasse destinandone 1 al taglio dell’Irap per imprese e autonomi e 7 non al cuneo ma alla revisione delle aliquote dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Meloni non ha fatto altro che ripartire da lì. In manovra ha confermato il taglio, aumentandolo di un punto per i redditi fino a 25mila euro. Ora lo potenzia ulteriormente, ma solo per pochi mesi. Per riproporre l’aiuto nel 2024 bisognerà trovare in sede di approvazione della legge di Bilancio almeno 10 miliardi. Ce la faranno?