Mafie e social, l’allarme di Gratteri: “Non si può continuare a lavorare così” – IL VIDEO

Alla Camera dei deputati è andato in scena un convegno molto interessante, di cui purtroppo si è parlato poco in tv e sui giornali. Riguardava le mafie nell’era digitale e sui social, durante il quale è intervenuto anche il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. L’allarme lanciato da Gratteri è molto chiaro, sentiamo cosa ha detto durante il suo intervento.

“Mentre la politica discute di utilità o meno delle intercettazioni, le mafie sono sempre più presenti nei social, ma soprattutto sono in grado di pagare gli hacker e di crearsi nuovi sistemi di comunicazione simili a Whatsapp e a Telegram. Noi ad ora non siamo riusciti a bucare nessuno dei loro sistemi comunicativi. Bisogna finirla di arruolare solo il maresciallo o il poliziotto o il carabiniere nei servizi segreti. Dobbiamo assumere ingegneri informatici e hacker, altrimenti non riusciremo mai a essere competitivi con le altre migliori polizie del mondo” ha detto Gratteri preoccupato.

Nella relazione della fondazione sono emersi dati impressionanti, uno tra tutti l’uso spregiudicato che le mafie fanno dei social media (in primis Tik Tok, in ultima analisi Facebook). Se prima, cioè, i mafiosi comunicavano coi silenzi, con le gestualità, coi tatuaggi, coi pizzini, ora hanno preso d’assalto i social optando per una sempre maggiore visibilità. Insomma, il precetto meno rispettato della mafie oggi è proprio il silenzio.

Gratteri ha analizzato con dovizia di dettagli l’evoluzione comunicativa delle mafie e denunciato la scarsità di competenze tecnologiche degli inquirenti in Italia: “I mafosi utilizzano telefonini che pagano mediamente 3.500 euro e che usano per 6 mesi. E parlano in chiaro. Si tratta di un sistema simile a quello dei citofoni, con la differenza che riescono a comunicare da una parte all’altra dell’oceano. L’Italia non è riuscita a bucare nessuno di questi sistemi. Se fino a 6-7 anni fa nell’investigazione non eravamo secondi a nessuno, la polizia giudiziaria italiana era dominante nel mondo e anche in presenza dell’Fbi davamo le carte, ora la situazione è diversa – continua – Qualche anno fa, in Costa Rica sono riusciti a bucare il server che i narcotrafficanti colombiani, messicani ed europei usavano per comunicare. Analogamente Francia, Olanda e Germania sono riusciti a bucare sistemi simili. Questo significa che stiamo perdendo quel know-how che avevamo, ma soprattutto nel corso di questi decenni chi ha governato non ha investito in tecnologia, ritenendo che non fosse importante sul piano dell’investigazione. Dobbiamo coprire il prima possibile questo gap” ha spiegato Gratteri.

Il magistrato si è poi soffermato sulla presenza delle mafie nei social: “Le mafie da sempre per esistere hanno bisogno di pubblicità. Tutti devono sapere chi sono i mafiosi, perché devono essere temuti e riconosciuti. Col professor Nicaso ho scritto 22 libri, in cui sono nominati centinaia di mafiosi tra i più pericolosi del mondo. Mai nessuno ha protestato. Abbiamo scritto un libro sui rapporti tra la ‘ndrangheta e la Chiesa ed è successo il finimondo. In quel libro – prosegue – abbiamo raccontato di una famiglia della ‘ndrangheta che ha ristrutturato una chiesa davanti alla quale ha messo una lapide con inciso il nome della famiglia stessa. Quella ad esempio è una esternazione del proprio potere. Un altro esempio simile si ha quando il Santo passa in processione e il figlioletto del capomafia si avvicina per dare l’offerta da 200 euro. O ancora, come è testimoniato da foto, il mafioso accanto al vescovo in processione”.

Gratteri ha concluso il suo intervento con un auspicio: “Bisogna spendere soldi e investire in tecnologia. In Italia abbiamo l’aerospaziale che è all’avanguardia nel mondo, o Leonardo, che ha una tecnologia molto avanzata. La sicurezza dello Stato non possiamo lasciarla agli altri o alla fortuna, perché molte volte siamo stati fortunati. Non è possibile continuare a lavorare come ora: mi chiama un collega francese o tedesco che mi dà tre, quattro tir di file che la polizia giudiziaria deve decriptare – dice – Questo lavoro che richiede dai 6 mesi a un anno, quando cioè il fatto è già accaduto o il carico di cocaina o armi è già arrivato da Gioia Tauro ad Amsterdam o ad Anversa. Io vorrei che l’Italia fosse all’avanguardia come è stata sempre e che ci si togliesse questa paranoia che in Italia siamo tutti intercettati. Spero insomma che nel breve periodo si voglia investire sul piano tecnologico della nostra polizia giudiziaria” ha concluso Gratteri.

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