Ebbene sì: alla fine, il governo Meloni ha ceduto: la tassa sui cosiddetti extraprofitti bancari, che in realtà era su un extra margine d’interesse, pare sarà rivoluzionata con il deposito dell’ultimo emendamento, che prevede possa essere destinata a rafforzare il patrimonio delle banche. Come fa notare anche Danilo Toninelli nel suo ultimo video, le due cose (“punire” le banche e rafforzarle) non sono equivalenti, anzi nulla c’entrano l’una con l’altra ma viviamo tempi duri e spesso non ci rendiamo conto del senso del ridicolo di tutto questo. Nel dettaglio, e in attesa di conferma, pare che “in luogo del versamento”, le banche potranno destinare “a una riserva non distribuibile un importo pari a due volte e mezza l’imposta”. Tale riserva viene computata “tra gli elementi del capitale primario di classe 1”.
Intanto, vi chiederete: perché due volte e mezza l’imposta? Perché la tassa è il 40% dell’extra margine d’interesse. Il reciproco di 0,4 è 2,5. In parole povere, se questo emendamento vedrà la luce in questa forma, il governo finge che l’extra margine di interesse sia identico al maggiore utile della banca interessata. Ovviamente nulla conferma che le cose stiano in questi termini. Intanto, le banche hanno anche entrate da commissioni e servizi e non solo da interessi, e poi ci sarebbe da considerare l’entità degli accantonamenti a rischio perdite e svalutazioni. Ma non andiamo per il sottile.
Poi, l’aliquota: da 0,10% sale a 0,26% ma cambia la base imponibile. Non più gli attivi a valore nominale ma quelli ponderati per il rischio (Risk Weighted Assets, RWA), che di solito sono ben inferiori ai primi, anche se tale differenza varia in funzione dell’attività della banca. Cosa ha ponderazione zero? I titoli di stato della cosiddetta white list. Quindi, non solo quelli italiani. Il che vuol dire che una banca può beneficiare della riduzione anche comprando Bund tedeschi e OAT francesi, ad esempio. Ma non poteva essere altrimenti. L’aliquota di tassazione al 40% si applica alla differenza tra margine d’interesse calcolato al 2023, quindi a bilanci non ancora chiusi, e quello del 2021, se il primo eccede il secondo di almeno il 10%. In tal modo, scompare il fumus di retroattività del prelievo.
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Ma quale sarà il gettito effettivo? In altri termini, quante banche sceglieranno di pagare l’imposta e quante di destinare il controvalore nozionale a rafforzamento patrimoniale? Questo andrà verificato, e forse all’emendamento governativo mancano ulteriori affinamenti che scopriremo in un secondo momento. Per ora, pare che la relazione tecnica non quantifichi il gettito, e di conseguenza l’iniziativa non serva a costruire la manovra 2024. Ma c’è dell’altro: per aiutare le banche che dovessero risultare incapienti, cioè non disporre di utili sufficienti per accantonare l’imposta a capitale, è previsto il ricorso agli utili degli anni precedenti. Primo, non nuocere. O forse bisognerebbe cambiarlo in “primo, non legiferare nocive idiozie”.
Il gettito dell’imposta, sempre che esista, dovrebbe andare a integrare il fondo di garanzia sui prestiti alle piccole imprese, che a fine anno vedrà l’estinzione della garanzia pubblica legata alla guerra in Ucraina. Quindi niente aiuti ai mutuatari prima casa, agevolati o meno che fossero, contrariamente ai proclami delle ore immediatamente successive a quel famoso consiglio dei ministri serale, con conferenza stampa notturna del solo Matteo Salvini. Che dire, quindi? Che l’imposta finisce col diventare ben altro dagli intendimenti iniziali. Da punizione per i “margini ingiusti” (decisi dalla premier nella sua superiorità morale), diventa occasione per ricapitalizzare le banche. Le quali banche forse sarebbero le uniche a decidere se e quando farlo, magari dietro spinta amorevole della Bce. Ma transeat. La riserva ex imposta, chiamiamola così, non potrà essere distribuita perché altrimenti diverrebbe tassabile con l’aliquota prevista, ma questo non è un problema, riporta oggi Today. Ecco il video di Danilo Toninelli sui social: